Il caso
di Cinzia Marchegiani
Il certificato medico per dimostrare che il ricorrente non sia affetto da malattie infettive ha sollevato polemiche e accuse di discriminazione nei riguardi del “Protocollo sezione immigrazione” del Tribunale di Venezia dedicato alle udienze di coloro che si oppongono al rifiuto alla richiesta di protezione internazionale.
IL FATTO. Il 6 marzo 2018 è stato firmato un documento dalla presidentessa del Tribunale, la Dott.ssa Manuela Farini e da quello dell’Ordine degli avvocati, Paolo Maria Chersevani che prevede un protocollo per valutare la prassi comune nella gestione dei richiedenti asilo e protezione internazionale al fine di rendere omogeneo il trattamento fattispecie e problematiche similari hanno specificato diversi punti.
Nel punto numero 7 viene specificato: “I difensori ove siano a conoscenza di malattie infettive del ricorrente (Es. TBC) sono tenuti a comunicare la circostanza al Giudice prima dell’udienza e a richiedere al richiedente la produzione di certificazione che attesti l’assenza di pericolo di contagio”.
POLEMICHE DA PARTE DI MAGISTRATURA DEMOCRATICA.
Magistratura Democratica solleva polemiche e riflessioni con un articolo a firma di Silvia Albano magistrato del Tribunale di Roma e Riccardo De Vito presidente di Magistratura democratica dal titolo “Il diritto di difesa non è uguale per tutti”:
“Non possiamo esimerci da alcune considerazioni critiche sul contenuto del protocollo perché crediamo contenga previsioni in contrasto con i più elementari diritti della parte processuale, in questo caso particolarmente debole ed ignara dei propri diritti.
L’obbligo per l’avvocato di rivelare dati ultra sensibili relativi al suo cliente, poi, lede il diritto alla riservatezza e la dignità della parte, e viola platealmente la normativa italiana sancita dal Codice in materia di protezione dei dati personali. Si tratta, infatti, di dati sensibili il cui trattamento e diffusione non è di regola consentito, possono essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante. Anche a volere fare rientrare tale trattamento (del che sinceramente si dubita) nell’ipotesi di salvaguardia dell’incolumità fisica di un terzo sarebbe, comunque, necessaria l’autorizzazione preventiva del Garante della Privacy. Nessuno penserebbe mai di chiedere simile certificazione medica alle parti di qualsiasi altro procedimento giudiziario, dimenticando, tra l’altro che i richiedenti sono soggetti a stringenti controlli medici sia al loro arrivo che nei centri di accoglienza. E nessuno oserebbe pensare, in altri settori del processo civile, a un interrogatorio libero della parte senza la presenza del difensore”.
Il Comunicato di Magistratura Democratica termina con: “Ci preoccupa, dunque, non solo il profilo di illegittimità, ma anche l’opzione culturale che traspare dal protocollo, che tradisce lo svilimento della materia, che è complessa e tratta dei diritti umani fondamentali, e un pregiudizio nei confronti dei richiedenti asilo e dei loro difensori“.
I FIRMATARI DEL PROTOCOLLO IMMIGRAZIONE, TRAMITE L’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI VENEZIA – DISTRETTO CORTE DI APPELLO DI VENEZIA – REPLICANO ALLE POLEMICHE SOLLEVATESI:
“IL PROBLEMA E’ OGGETTIVO E NON FRUTTO DI DISCRIMINAZIONI O PREGIUDIZI”
Dopo le polemiche sollevatesi contro il protocollo immigrazione adottato e firmato dalla presidentessa del Tribunale, la Dott.ssa Manuela Farini e da quello dell’Ordine degli avvocati, Paolo Maria Chersevani, gli stessi rispondono alle accuse:
“L’obbligo di indicare al giudice le malattie, si riferisce, all’evidenza, alle patologie trasmissibili per via aerea, in particolare alla TBC, patologia da cui sono risultati affetti numerosi ricorrenti, trasmessa da un batterio, il Mycobacterium tuberculosis, che rimane sospeso in aria e viene trasportato dalle correnti anche a notevole distanza dal punto di emissione, rimanendo vitale a lungo nell’ambiente. Il problema nasce dal fatto che mentre di regola i difensori comunica a Giudice l’esistenza della patologia infettiva del proprio assistito nel ricorso diretto ad ottenere la protezione umanitaria, è accaduto spesso che la comunicazione sia stata effettuata solo all’udienza, o anche all’esito dell’audizione, senza alcuna certificazione di avvenuto superamento della fase contagiosa e quindi senza consentire al Giudice di adottare le doverose misure per evitare la possibilità di contagio (quale la predisposizione di un’aula di udienza non frequentata da altri utenti della giustizia, o la fissazione di un orario di minore afflusso al Tribunale)”.
Precisazioni TRIBUNALE VENEZIA – ORDINE AVVOCATI DI VENEZIA Protocollo Immigranti
“La previsione – spiega il comunicato– del protocollo non demanda alcun indagine ai difensori come si evince dall’inciso ‘ove siano a conoscenza‘ ma tende unicamente a consentire le misure organizzative necessarie a tutela delle esigenze di salute pubblica, considerati anche gli spazi ristretti della sede del Tribunale. Il contagio può avvenire, infatti, anche per contatto occasionale ai danni di persone che hanno condiviso lo stesso spazio chiuso.
Il controllo del rischio lavorativo di infezione da tubercolosi deriva infatti da un obbligo di legge (Decreto Legislativo n. 81/08) che prevede l’obbligo di segnalazione (c.d. notifica obbligatoria) alle autorità sanitarie in base al DM 15.12.90 trattandosi di malattia infettiva di classe III al fine di provvedere ai necessari trattamenti sanitari. Alla segnalazione nominativa segue la c.d. ‘ ovvero l’identificazione di quelle persone che siano entrate in contatto con il paziente affetto da TBC a scopi diagnostici e terapeutici”.
Infine il Comunicato a firma presidentessa del Tribunale, la Dott.ssa Manuela Farini e da quello dell’Ordine degli avvocati, Paolo Maria Chersevani incalza: “Nelle linee guida per il controllo della tubercolosi nella Regione Veneto (Revisione 2014) sono compresi tra i soggetti ad alto rischio gli immigrati che provengono da Paesi ad alta endemia tubercolare, nei primi cinque anni di soggiorno in Italia e quelli che continuano a vivere in precarie condizioni anche dopo i primi 5 anni di soggiorno in Italia. Il problema è oggettivo e non frutto di pregiudizio e discriminazioni“.
“In ogni caso – termina il comunicato – i ricorrenti affetti da TBC sono stati sempre sentiti e, in presenza di necessari presupposti, hanno ottenuto la protezione umanitaria essendo quindi escluso qualsiasi problema di discriminazione“.
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