venerdì, 22 Novembre 2024

UNA BIBBIA CHIAMATA GATTOPARDO

DI TUTTO UN SUD

di Angelo Ivan Leone

Giuseppe Tomasi di Lampedusa nacque a Palermo nel 1896. Appartenente ad un nobile casato siciliano, visse la sua vita per lo più nell’anonimato. La sua passione per la letteratura era molto grande, ma il Principe aveva avuto saltuarie e sporadiche esperienze con l’ambiente letterario che non gli avevano consentito di mettere a frutto il suo talento. Egli fu critico in una rivista pubblicata a Genova di letteratura francese e di storia, durante gli anni 1926-1927. Dopo questa breve esperienza non ebbe però nessun altro contatto con il mondo delle lettere, fino a quando, nel 1954, accompagnò il cugino Eugenio Piccolo nel salone del Kursaal alla repubblica delle lettere.

In quel convegno scoccò per Lampedusa, la scintilla sacra della scrittura.

Negli ultimi trenta mesi che gli restavano da vivere il Principe scrisse la sua opera “Il Gattopardo”. La morte lo colse nel luglio del 1957, aveva già in cantiere un secondo romanzo “I gattini ciechi” e forse avrebbe aggiunto uno o più capitoli al suo “Gattopardo”.

L’opera è divisa in otto parti; ognuna di queste tratta in un’angolazione periodica diversa la condizione siciliana. Nella figura del principe, protagonista del romanzo, Don Fabrizio Salina, è facile vedere una biografia intellettuale dello stesso Tomasi di Lampedusa. Il Principe Salina è un uomo intelligente che ha senso della tradizione, ma allo stesso tempo consapevolezza di assistere alla fine di un’epoca. Il romanzo, infatti, inizia ambientato nei giorni dello sbarco dei Mille Garibaldini, sulle coste di Marsala e prosegue seguendo lo svolgersi del nostro Risorgimento nazionale. Della psicologia di Don Fabrizio, due cose appaiono chiare e terribili: il senso disincantato con cui il Principe accoglie l’unità nazionale, vista come una vera e propria annessione e non come un’unificazione, e il disperato accorgersi che le cose si stanno evolvendo in peggio ed è inutile opporsi alla storia.

Per il senso di disincanto che il principe prova di fronte alla cosiddetta “Unità”, si deve pensare al fatto che i Re di casa Savoia, consideravano l’Italia come un carciofo da mangiare, una foglia alla volta, e a come fu storicamente affrontato il fenomeno del Brigantaggio meridionale, esploso subito dopo l’eroica epopea garibaldina. I briganti erano dei semplici contadini che, vessati dai soprusi dei signorotti, dalle tasse come quella sul macinato e da una giustizia, da sempre latitante, si davano alla macchia, per pura sopravvivenza, poiché le terre, loro unica fonte di sostentamento, erano totalmente in mano all’aristocrazia e alla borghesia parassitaria cui la Mafia dava manforte.

In quel periodo, infatti, mafiosi sono: i gabellotti, i soprastanti e i massari, tutti intenti a far rigare curve sotto gli alberi o le viti, le moltitudini sterminate di disperati peones meridionali. Il governo piemontese e poco italiano, non penso minimamente ad allearsi con queste plebi e a sollecitarne la partecipazione al moto nazionale preferendo puntellare il potere dei “notabili” che erano, poi, i cosiddetti “galantuomini”. Prova della politica double-face dei liberatori piemontesi è: il massacro di Bronte dove i contadini furono fucilati per aver preso alla lettera la parola libertà propugnata da Garibaldi e i suoi Mille.

Qui senza che nemmeno si fosse compiuta la tanto agognata Unità, Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi, fucilò alle pendici dell’Etna contadini, rei di aver imprigionato i feudatari locali, che gli costringevano ad ogni sorta di corves, tra le quali non mancavano la disponibilità forzata delle donne del popolo ad allattare i “figli bastardi” dei signori.

Nel Gattopardo il Principe Salina, avverte tutto questo, vede il realizzarsi di un altro personaggio chiamato: Don Calogero Sedara, archetipo del borghese, fattosi promotore dell’Unità perché questa gli torni a suo esclusivo vantaggio. La figlia di Don Calò, Angelica (interpretata nel film da una sublime Claudia Cardinale) va persino in sposa al nipote preferito del principe, Tancredi, suggellando con un matrimonio reale, il matrimonio sociale della borghesia mafiosa-parassitaria con l’aristocrazia.

Matrimonio questo che ebbe come prole la difesa dei patrimoni e dei privilegi garantita dalla violenza sia mafiosa che statale. Sembra la storia di oggi, sbagliato, lo è.

 

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