Se c’è una cosa che le elezioni Usa 2016 dovrebbero insegnare a noi italiani, ma anche a tutta l’Europa, è che si possono raccontare tutte le favole che si vuole, ma non si può dire di stare meglio quando in realtà di sta peggio. Questo dovrebbe rappresentare l’assunto principale di chi non vive negli Stati Uniti e non può conoscere la realtà profonda di questo grande Paese che, di fatto, ha la grandezza di mezzo continente.
Prima di procedere con l’analisi di queste elezioni, sarebbe bene fare un breve excursus di ciò che è stata questa campagna elettorale, dentro e fuori gli USA.
Mai si era visto un presidente uscente scendere in campo per il candidato del suo stesso partito; se Obama, premio Nobel per la pace “sulla parola”, avesse speso un decimo delle energie che ha speso, anziché per Hillary Clinton, per la pace nel mondo forse oggi non avremmo il Daesh, l’Isis, la Siria, il calderone medio-orientale, non avremmo avuto le primavere arabe in Tunisia, Libia, Egitto con tutto il loro carico di immigrazione incontrollata verso l’Italia. Ma all’elettore statunitense importa poco della politica estera.
Lo so, sto ragionando da italiano che guarda gli USA da qui. Quello che importa veramente all’elettore statunitense è la politica economica interna. Hillary Clinton si è posta in continuità rispetto alle politiche di Obama, ovvero incentivi economici ed infrastrutture pubbliche i cui risultati sono ancora oggi controversi: gli incentivi si sono resi inadeguati, lo stesso team di economisti organizzato da Obama ha ammesso di aver sottovalutato l’impatto della crisi. Se sommiamo tutto questo agli aumenti delle imposte per le famiglie con un reddito totale superiore a 450 mila dollari all’anno, alla permanenza degli sgravi adottati da Bush per i redditi inferiori e all’imposta sulle plusvalenze, passata dal 15% al 20%, ad oggi, il bilancio sulle politiche fiscali è tuttora ritenuto neutro da vari analisti, ma si può definire di stampo “socialista”. Come socialista era l’avversario alle primarie di Hillary Clinton, Bernie Sanders. La sua figura è una delle chiavi, se non la chiave di volta, per capire la vittoria di Trump e la disfatta del Partito democratico americano (perché Trump ha vinto anche contro lo stesso Partito repubblicano).
Alle primarie dello Stato di New York del 19 aprile, nonostante l’attacco diretto alla Clinton sui suoi legami con le banche e sulle sue idee su Israele, la sanità e il salario minimo, Bernie Sanders non riesce ad ottenere la maggioranza del delegati. Bernie si dimostra comunque più “a sinistra” di Obama, che a sua volta è più “a sinistra” di Hillary. Per questo riceve nel frattempo l’endorsement di numerose personalità pubbliche: tra questi, non a caso, il leader dei laburisti britannici Jeremy Corbyn, l’ex ministro delle finanze greco Gianis Varoufakis, il politico spagnolo Pablo Iglesias Turrión, il linguista Noam Chomsky, il medico e attivista Patch Adam. La continuità delle politiche di Obama sarebbe stata proprio quella di Sanders e non di Hillary. Magari con uno spostamento dell’asse ideologico, ma di certo in favore di quegli strati sociali che avevano sostenuto Obama (giovani e disoccupati in primis).
Dove non era riuscito Obama, sarebbe potuto (forse) arrivare Sanders? Era questa la speranza di tanti attivisti democratici e di tanti americani in difficoltà. Fatto sta che il 12 luglio annuncia ufficialmente il suo endorsement alla Clinton, ritirandosi così definitivamente dalla corsa alla Casa Bianca, lasciando orfano il suo elettorato delle speranze che, a mano a mano, sono state raccolte da Trump, vuoi per rabbia nei confronti del Partito democratico, vuoi per la ricerca di una speranza che Hillary, giocoforza, non poteva dare, vuoi per i tanti oscuri sospetti nati attorno alle scomparse di coloro che si sono opposti all’ascesa di Hillary. Ma questo è un altro capitolo.
Ma veniamo a Trump. Rimanendo sempre con la visuale negli Stati Uniti e non dall’Italia. Il rovescio, non mancherò di analizzarlo dopo. Le sue posizioni politiche sono note fin dal 2010, quando tenne un discorso presso il CPAC: contrario a qualunque provvedimento di innalzamento della pressione tributaria; contrario al controllo delle armi; contrario agli aiuti internazionali; contrario all’Obamacare; favorevole a sostenere l’idea che la Cina comunista dovrebbe essere trattata dagli Stati Uniti d’America come un nemico e, quindi, sottoposta a pesanti dazi all’importazione.
Non sarebbero proposte che alletterebbero più di qualche italiano? Per la gente comune la Grande Recessione del 2007-2009 è stata una tragedia incalcolabile ed inattesa. L’ultimo censimento negli USA ha rivelato che 3 milioni di persone sono cadute in povertà nel 2009, portando il totale a 42 milioni. Nel Paese dove tutti vogliono l’iPad, i ristoranti servono porzioni enormi e il governo spende centinaia di miliardi in guerre lontane, un cittadino su sette vive con meno di 10 mila dollari l’anno – il reddito minimo per non essere considerati poveri. Per i bambini, le cifre sono ancora più gravi: uno su cinque vive in condizioni d’indigenza. Non pensate a città come Los Angeles, New York, Washington, grandi capitali e città metropolitane, ma pensate ai piccoli (si fa per dire) centri della sconfinata America centrale.
Per questo la campagna di Trump è stata incentrata sul motto Make America Great Again, rendiamo l’America di nuovo grande, perché per spiegare questo voto, forse ci vuole uno psicologo e non un economista. Con le imprese che non investono, per paura di perdere, i consumatori, anche quelli benestanti (che avrebbero potuto votare per Hillary) cercano di risparmiare. Sembra quasi che gli USA siano diventati come l’Italia e viceversa. Allora ecco spiegata la vittoria di Trump in roccaforti democratiche come il Michigan. Le boutade di Trump sui muri tra USA e Messico e le battute lanciate in questa campagna elettorale al veleno le lascio ai giornalisti nostrani e la situazione della realtà sociale americana può ben spiegare un probabile salto di voti dei sostenitori di Sanders verso Donald Trump: hanno voltato la faccia al partito che ha voluto sostenere a tutti i costi unna candidata non voluta dalla sinistra interna e che non ha fatto presa sui giovani (molti dei quali disoccupati), sostenuta dalla grande finanza che dirige le politiche neo-liberiste che stanno distruggendo il futuro di tutti. Per questo si deve parlare di vittoria di Trump e neanche del Partito repubblicano.
Dunque è giunto il momento di ribaltare la visuale. Anche qui partiamo dalle primarie. La pompatissima Hillary Clinton è stata letteralmente osannata dalla stampa italiana. Una stampa di parte, faziosa ed asservita? Hillary Clinton, la candidata sostenuta dalla famiglia Bush, da Wall Street, dall’Arabia Saudita, contro l’impresentabile Donald Trump, contro il rischio di terza guerra mondiale. Se c’è un guerrafondaio tra i due è proprio Hillary Clinton: il marito, Bill, è stato il responsabile delle missioni in Somalia, in Bosnia, dei bombardamenti in Afghanistan ed in Sudan nel 1998 ed in Kossovo. La famiglia Bush, che ha dato l’endorsement ad Hillary, è stata forse tra le più guerrafondaie degli ultimi 25 anni e non ha bisogno di presentazioni.
Infine una candidata che dichiara di avere pronta sul tavolo l’opzione nucleare contro la Russia e di voler spazzare via la Siria, mi sembrano proposte che fanno sorgere più di qualche ragionevole dubbio. Ma ogni telegiornale, ogni programma televisivo pomeridiano non ha comunque perso l’occasione per infilare tra qualche coscia ammiccante e qualche culo sparato in telecamera, un servizio su “quanto è cattivo zio Donald” e “quanto è brava mamma Hillary”.
I giornalisti nostrani, che alloggiassero vicino al Rockefeller Center di New York oppure al Tokio Hotel di Los Angeles, non si sono resi conto che non era quella l’America vera che stavano intervistando? Altro che “la gente si è vergognata di dire per chi votava”. Perché non siete andati lungo l’8 mile di Detroit a fare le vostre interviste e le vostre riprese? Perché avreste mostrato un’America che l’informazione eterodiretta dai grandi gruppi finanziari globalisti non avrebbe voluto far vedere.
La maratona elettorale è stato probabilmente il punto più basso del giornalismo italiano, forse anche di non ritorno? Alle ore 2 la Florida era l’ago della Bilancia. Alle 3, Trump vince in Florida, alle 3.30 diventano determinanti Ohio e North Carolina. Alle 4 Trump vince in Ohio e North Carolina, alle 4.30 diventano determinati Wisconsin e Michigan. Alle 5 Trump vince anche in Wisconsin e Michigan, alle 5.30 tutti danno per fatta l’elezione di Trump con grande sgomento, stupore, orrore e chi più ne ha più ne metta. Ma siete giornalisti che fanno informazione o siete terroristi che lavorano per le grandi lobby che sostenevano Hillary Clinton?
Tanto altro ci sarebbe da scrivere. L’America è un grande Paese che solo chi lo ha vissuto “da dentro” può comprendere e neanche tutto. Saprà Donald Trump risollevare le sorti di questa potenza? Sarà un nuovo Reagan o un impreparato apprendista stregone? Su questo è da tenere d’occhio il vice presidente, Pence. Su di lui poco si è scritto e cercato. Dal punto di vista dell’Italia una domanda è certa: ora che Renzi è andato a visitare Obama, schierandosi di fatto per Hillary, chi manderemo a parlare con gli Usa? Ridiamoci su, ché fra un mese si vota anche in Italia.