di Mario Amitrano
Ricordi, emozioni, passioni. Oggi è un giorno speciale. Per noi napoletani di più, è vero, ma anche per tutti quelli che Napoli la portano dentro, nel cuore, nell’anima. 10 maggio. Una data storica, impressa sulla pelle, altro che tatuaggi, nell’animo, nella testa.
10 maggio 1987. Trent’anni. Trenta lunghi anni. Il Napoli, Maradona, il suo primo scudetto. Io c’ero. Come c’erano tanti di voi. Altri tempi, altro calcio, altra gente, altro tutto. Magliette, colori, calzettoni, pantaloncini, numeri, panchine, arbitri, allenatori. Tutto diverso. Preistoria, chissà, ma tutto molto più bello. O almeno tutto sembrava molto più bello proprio perché avevamo 30 anni in meno. Una vita, forse di più. I ricordi, inutile far finta di niente, affievoliscono. Ma il grosso resta, lì, scolpito a grandi botte dentro di me.
Era un Napoli stellare, vederlo giocare era entusiasmante. Diego, il re, il Signore del pallone, il Dio del calcio, una specie di mammasantissima in maglietta e pantaloncini. E poi quel numero, il 10, il mito, la storia, tutto. Mio padre era morto a febbraio, pochi mesi prima, mannaggia, e non riuscì a godersi quel trionfo. Io lo vissi anche per lui, con passione, proprio perché sapevo che a lui avrebbe fatto piacere esserci. A casa di amici organizzai una specie di tele-radiocronaca. Le immagini della Rai, le cassette quelle col nastro, il registratore con la testina, mamma che ricordi. La festa, la gioia, le urla, le lacrime. A piedi dal Vomero a via Roma, trascinati da un tripudio di bandiere, striscioni. E poi l’azzurro. E che azzurro. Quello vero, del nostro cielo, del nostro mare.
Tutta la città azzurra, tutto era diventato azzurro, pure quello che era nero, rosso, verde, giallo. Il gol di Carnevale ci aveva portati in Paradiso e non lo sapevamo, o almeno non ce ne eravamo ancora accorti. Galeazzi in campo, la Fiorentina spettatrice della festa, Bianchi che inutilmente cercava di continuare a fare il duro ma dentro piangeva di gioia, Maradona col microfono in mano ad intervistare Ferlaino, il Presidente, o meglio ‘o Presidente, quello che fino ad ora è l’unico col tricolore a casa.
I giornali uscirono in edizione straordinaria, ne comprai varie copie, da leggere e da conservare, gelosamente, per quando i tempi sarebbero stati cupi. Il giorno dopo andai al cimitero, da mio padre, e gli portai un triangolino di stoffa tricolore. Lo misi sulla croce che sovrastava le lapidi di marmo che coprivano la sua bara (era sottoterra). A casa, sulla bandiera del Napoli, scrissi “Lo scudetto è anche per te, Babbo”. Chissà, sarà stato felice anche lui, è ovvio. Purtroppo nel corso degli anni tutto il materiale che avevo è andato disperso. Anche la cassetta con la mia tele-radiocronaca. Che peccato: c’erano voci, emozioni, parole, ricordi, interviste ai commercianti. Ricordo che entrai da Bellomunno (quello delle pompe funebri) e microfono in mano gli chiesi “Ma oggi la gente ha rimandato pure a morire, vero?”
Sono passati 30 anni, lunghi anni. Venne un altro scudetto, la Coppa Uefa, qualche Coppa Italia, e poi altri presidenti, altri allenatori, altri giocatori. E’ cambiato tutto, ma quei giorni no, quelli restano lì, in un angolino del cuore, con la voce di Enrico Ameri che alle 17.42 del 10 maggio 1987 annuncia il tricolore e tante altre cose che ognuno di noi, a modo suo, non dimenticherà mai.