di Daniel Prosperi
Essere giovani nella società contemporanea è un mestiere da inserire nel contratto collettivo nazionale del lavoro, perché è a tutti gli effetti un’attività non retribuita nemmeno con soddisfazioni.
È vero: non possiamo dipendere da altre generazioni che dovrebbero darci giusto credito ai nostri sogni, alle nostre aspettative, alla nostra vita. Convincerci che nulla sia possibile è stato facile, il difficile è controllare completamente le emozioni di chi è nato e cresciuto a colpi di ingenua felicità giustificata non tanto dall’età infantile ma proprio dalla capacità di adattamento alle brutture dei cinici adulti.
L’uomo è arrivato al punto di trasmutarsi in qualsiasi momento in giudice supremo degli altri e soprattutto verso i giovani. Noi Giovani che facciamo poco per mantenere ciò di cui abbiamo bisogno: la vita! Perché ogni azione che tende al controllo assume le caratteristiche di una dittatoriale forma di discrasia tra “vecchi” e “giovani”.
Non riusciamo a percepire nemmeno più quella speranza nelle ipocrite parole dei parolai ipocriti. Ma il problema per la società non è nemmeno l’intelletto sviluppato di una generazione degenerata: la motivazione del soffocamento delle innovazioni socio-culturali è la consapevolezza di essere.
“Siamo ciò che mangiamo” disse un filosofo. Ebbene, noi non siamo la spazzatura di cui ci rendono dipendenti. Non siamo la generazione della TV, delle miscredenze, della droga, dell’apatia. Noi siamo totalmente diversi da come governanti e badanti di un’Italia che va, vorrebbero che fossimo. L’esserci qui, adesso, in questa epoca, è lo stesso esserci dei sessantottini, dei ’99, dei mille. Noi siamo, punto.
È il nostro essere presenti che infastidisce e non poco le generazioni antecedenti, quelle che hanno costruito sul fallimento la distruzione di tutti a loro appannaggio. Tuttavia, le colpe dei padri, citando il canto XVI del Purgatorio su Marco Lombardo, non possono ricadere sui figli e senza questa essenziale consapevolezza di essere non solo figli ma cittadini di un mondo che non è come realmente vogliamo, non cambieremo.
La nostra svolta è l’acquisizione delle certezze, quelle messe in dubbio quotidianamente da chi di risposte non ne ha mai ricevute perché sempre legato a falsi padroni, a falsi mezzi, a falsi racconti. L’evoluzione di noi avverrà, non so quando, non so come, ma so il perché: ci accorgeremo ben presto che il potere è insito in ognuno, esercitarlo con ottuso menefreghismo per farci del male sarà il mezzo che condurrà tutti ad un’estremizzazione dell’individuo tale da reprimere ogni prodotto negativo di questa continua involuzione preventiva. Tutto ha un inizio perché prima o poi finirà.
Ed oggi meritiamo solo di essere lieti. “Chi vuol’essere lieto sia di diman non v’è certezza!”
Il Magnifico docet. Noi impariamo. Ad essere felici, ovviamente. Anche se non è mai così scontato, ma crogiolarsi su ciò che non va ha il sapore di chi non ha proprio alcuna volontà di vivere l’eterna giovinezza della gioventù. Quella che passa e non torna più!